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Scritto ascoltando: Chuck Berry – I’m Talkin About You

Non c’è dubbio, la nostra società è sempre più caratterizzata dall’incertezza: recessioni, sfiducia, turbolenza dei mercati, elementi che non possono che contribuire ad un aumento della complessità.

Le imprese “galleggiano” in uno scenario sempre meno saldo, quello che Enzo Rullani definisce “Capitalismo Globale della Conoscenza”, un ambiente dove risulta fondamentale saper rigenerare continuamente i propri vantaggi competitivi. Naturale conseguenza è per le imprese saper sfruttare al meglio le proprie peculiarità: know-how, creatività, innovazione diventano in questa situazione parole quanto mai “concrete”. Sono i così detti intangibles assets, cioè tutti quei fattori intangibili dal punto di vista fisico che però contribuiscono massivamente alla prestazione d’impresa nella produzione di beni o servizi, ad assumere un ruolo primario. Fattori capaci di generare benefici, anche economici, ai diversi stakeholders.

Saper valorizzare le proprie peculiarità e differenziarsi, sfruttando al contempo le opportunità che ci vengono presentate. Opportunità, come quelle derivanti dai social e dal valore delle conversazioni online per esempio. Le potenzialità del web, ed in particolare dei social, hanno cambiato radicalmente l’approccio delle persone all’acquisto, modificandone di conseguenza anche il mercato. Oggigiorno ognuno di noi è infatti in grado di poter valutare prodotti e servizi in modo semplice e rapido. Siti, blog, word of mouth, ci guidano prima di ogni azione in quello che Google chiama zero moment of thruth e vanno a creare il substrato informativo della nostra reputazione online (non parlano con te, caro Robert, quanto di te).

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Non bisogna stupirsi, una realtà sempre più frutto di affinità e relazioni (all’insegna del person to person) è per natura generatrice di conversazioni, in larga parte sulla soddisfazione o l’insoddisfazione del utente/consumatore nei riguardi di prodotti o servizi. Il risultato?!? Un flusso continuo di conversazioni che finiscono per influenzarsi a vicenda e per autoriprodursi, alimentate per la stragrande maggioranza da quella rete di relazioni che sono i social network.

Una rivoluzione copernicana per le aziende e la loro comunicazione, in cui non basta “parlare”, ma soprattutto saper ascoltare. Il web dà infatti alle persone un’occasione fino a qualche anno fa impensabile, dar voce alle loro opinioni, pensieri, commenti (in una parole conversare). E’ da questo ascolto e dalla gestione dei contenuti conseguenti che nascono relazioni, quelle stesse relazioni che se ben alimentate diventano assets crusciali per ogni azienda, vantaggio competitivo unico da spendere nel mercato.

Il processo di comunicazione è  passato da verticale (io azienda propongo un messaggio, voi clienti lo ascoltate) ad orizzontale (un fattivo dialogo, o meglio una conversazione), con tutto ciò che ne consegue. Sul web e sui social i prodotti ed i servizi vengono messi totalmente a nudo ed i pareri dei consumatori (positivi o negativi che siano), si propagano e si auto-diffondono molto più rapidamente, dando vita ad un eco in grado di sancire il successo o l’insuccesso di un’azienda.

Ma come detto le conversazioni sono figlie delle relazioni. Gestirle diventa un impellente necessità, iniziando da piccoli ma fondamentali passi come il social caring per esempio. Una recente analisi di Icm Advisors e Icm Research, ha stabilito un impatto notevole del social caring sul valore degli asset intangibili delle aziende e del valore del brand. Un impatto capace di arrivare fino al 10% del totale del valore del marchio. Non solo, il social caring è in grado di favorire una migliore customer experience e generare lovemark ed advocacy, valori che in un momento di crisi come questo diventano quantomai strategici.

Una sfida ormai irrinunciabile aspetta le nostre aziende: ascoltare, riconoscere e saper gestire conversazioni e relazioni “digitali”siamo proprio sicuri di poterne ancora fare a meno?!?