Social media, branded content, realtà aumentata, metaverso, strumenti diversi e , con modalità diverse, al centro della vita digitale di brand e, soprattutto utenti. Stelle della medesima galassia, profondamente diversi per tecnologia, possibilità di interazione, finalità, ma accomunati da una semplice quando dirompente parola: esperienza.

Quella stessa esperienza di cui si parla da tanto (forse troppo) e che dovrebbe essere al centro di tutto questo o, ancora meglio, del rapporto tra brand e utente. L’experience come base portante del journey e connettore, quasi un API avanzata, capace di dare forma (e senso) al concetto di omnicanalità, in un multiverso di connessioni e declinazioni.

Un concetto, quello dell’esperienza, che al di là del suo essere diventata una buzz word, fatica però a trovare uno spazio sensato nelle progettualità dei brand, più attenti a rincorrere novità e dare un tocco di “esotico” alle proprie campagne, che a integrarla e utilizzarla al meglio, ovvero orientata all’utente.

Progettare è il termine giusto, perché l’experience non è il fine, ma il percorso.

“Mappare” lo scenario

Come ogni viaggio, serve una mappa, o meglio, capire il terreno. Analizzare i nostri touchpoint, ma ancor di più quelli dove i “nostri” utenti sono presenti e, soprattutto, attivi. Una valutazione che non si deve fermare al dove, ma che deve andare più in profondità capendo il come e il perché: al di là di avere un ampio utilizzo di TikTok, ad esempio, cosa fanno le persone su questo canale? Come lo vivono? Perché ci passano così tanto tempo?

Domande fondamentali per progettare una corretta experience, ideandola sugli utenti stessi. Difficile, altrimenti, poter lavorare in termini di personalizzazione, una delle esigenze che sempre più è diventata cruciale.

Elementi strettamente connessi ai behaviours delle persone e in cui la consumer intelligence acquisisce un valore enorme, importanza destinata a crescere viste le continue limitazioni lato dati a cui stiamo assistendo e a cui dovremo, purtroppo, abituarci.

Il contenuto è parte integrante dell’experience

Il contenuto, piaccia o no, resta centrale, primo punto che mette in contatto utente e brand, facendogli iniziare (se siamo bravi) quel percorso di “immersione” che si tramuta poi in esperienza.

Nell’ottica poi dei contenuti odierni e soprattutto dell’enorme evoluzione dei branded content possiamo arrivare, senza dubbio, a dire che i contenuti sia essi stessi esperienze, soprattutto quando realizzati con la volontà di essere coinvolgenti, immersivi, capaci di generare un impatto che vada oltre le metriche classiche come views e reach.

Un content però che, come ben scrive l’amico Alberto Maestri, non può basarsi esclusivamente su logiche decisionali a feedback, ma che deve integrare anche una componente a feedforward. Non è solo il dato storico ad essere rilevante, ma sempre più anche quello contestuale, ovvero nello stesso contesto in cui la persona decide, acquista o vive la propria fase del customer journey.

La tecnologia è utile quando diventa mezzo invisibile

Le opportunità che oggi la tecnologia mette a disposizione di brand e marketer sono qualcosa di fenomenale, mettendoci in condizione di progettare esperienze sempre migliori, più complete. Basti pensare al metaverso in tal senso.

Ma non bisogna mai scordarsi che, al centro, c’è e ci deve sempre essere l’esperienza e che la tecnologia deve essere un abilitatore. Se il fulcro diventa la potenzialità tecnologica, la novità, non staremo offrendo tanto un’esperienza, quanto uno showcase di innovazione. Non è proprio la stessa cosa.

Per questo, lato metaverso, non è tanto importante esserci tanto per farlo, quanto sforzarsi di capire come portare le esigenze e le aspettative degli utenti in piattaforma, piegandola così da poter sviluppare una experience di rilievo. Ottimi sono gli esempi di Nike o Carrefour e i “mondi” esponenziali che hanno sviluppato in cui gli utenti possono vivere situazioni che li pongono in relazione con i brand, i loro prodotti, i valori.

La tecnologia per essere utile deve essere invisibile, percepirla come un medium che ci permette di vivere qualcosa che, senza, non avremmo potuto provare.

Simulare non vuol dire perdere trasparenza

È indubbio come le esperienze di oggi, ma ancor di più di domani, vedano una pesante componente di simulazione, andando a modificare il reale, facendolo evolvere in direzioni differenti. Non a caso Cosimo Accoto parla di Filosofia della simulazione.

Sembra un ossimoro, ma in questo percorso simulato diventa ancor più decisivo mantenere, almeno nei pillar, verità e, soprattutto, trasparenza. Potrà essere aumentato l’ambiente e l’experience proposta, ma non l’essenza del brand, i suoi valori, il purpose.

Parliamo pur sempre di esperienze come connettori relazionali tra utenti e brand e non può esistere relazione vera senza una corretta dose di verità e trasparenza.