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Scritto ascoltando: Michael Stipe – The Man who sold the World

Che il web abbia modificato profondamente il giornalismo e la fruizione dei media è indubbio. Da un cambio radicale della forma (sempre più multimediale) alla nascita di nuove realtà, sino ad un evoluzione della figura stessa di giornalista, sempre più connesso ed interconnesso. Sono ormai molti i professionisti a presidiare la rete e soprattutto a fruttare le potenzialità dei social per comunicare ed, in molto casi, accrescere la propria visibilità.

Piccole e grandi star che crescono e guadagnano consenso, andando a travalicare la classica posizione a cui eravamo abituati, evolvendo in figure “ibride” dai confini sempre meno delineati. In un contesto del genere è facile veder acquisire crescente rilevanza agli influencer. Che siano i giornalisti evoluti citati primi o utenti “prestati” (blogger, youtuber, esperti dei social) poco importa. Importante è la loro capacità di veicolare con maggiore forza il messaggio e soprattutto, aprire il media ad un pubblico nuovo, in molti casi profondamente diverso.

IL NEW YORK TIMES PUNTA SUGLI INFLUENCER 

È di pochi giorni fa (grazie al bravo Diego Valente per la segnalazione) la notizia dell’acquisizione da parte del New York Times di Hello Society, piattaforma di comunicazione digitale specializzata in influencer marketing. Nata come canale di analisi social, nel tempo è diventata agenzia di contatto tra brand e influencer.

Le 1.500 figure di Hello Society diverranno parte integrante di  T Brand Studio, il team del New York Times dedicato al native advertising. Un percorso che, grazie proprio alle potenzialità dell’influencer marketing, dovrebbe portare la divisione a continuare il trend di crescita degli ultimi due anni.

Per Mark Thompson, CEO del Times: “HelloSociety è il complemento ideale alla nostra visione strategica per il futuro del marchio T Studio”.

“C’è stata un sacco di domanda per i nostri servizi, incluso qualche esperimento di influencer marketing” gli fa eco così Sebastian Tomich, senior vice president of advertising and innovation.

Dichiarazioni che sottolineano nettamente la crescente necessità per i media di trovare nuovi servizi da offrire, servizi da affiancare alle fin qui già sperimentate fonti di sostentamento, advertising e contenuti pay su tutte. I progetti con gli influencer diventano perciò rilevanti, risorsa preziosa da proporre e sfruttare.

INFLUENCER E MEDIA, RESTANO DUBBI 

Sono motle le voci che però vedono rischi e pericoli nel binomio influencer/media.  Secondo Julia Cagé, docente universitaria di Economia del dipartimento di Economia e Scienze a Sciences Po a Parigi ed autrice di Salvare i Media, il rischio è di accostare blog e social ai veri e propri media. Questi infatti raccontano spesso una parte della notizia, in modo spesso parziale. Blogger ed influencer web poi, non hanno un codice deontologico da seguire, come accade per i giornalisti. Se è vero che assistiamo sempre più a comportamenti non certo da codice da parte dei giornalisti, lo è altrettanto che una mancanza di guida e  controllo può portare risultati problematici.

La continua ricerca di visibilità e popolarità, soprattutto sui social, può inoltre portare manie di protagonismo, spingendo il giornalista a travalicare la notizia, fatto non certo nuovo. Un difficile equilibrio quello tra professionista e professione, che nel caso dei giornalista diventa però fondamentale, linea di confine tra bene e male.

INFLUENCER E MEDIA, UN INCONTRO PREMATURO?

È facile evincere quanto gli influencer e giornalisti sempre più social addicted siano un inevitabile punto di passaggio per l’editoria, passaggio che probabilmente non vede il settore ancora del tutto pronto.

Abbiamo chiesto lumi all’amico Pier Luca Santoro, tra i massimi esperti italiani di social, web e giornalismo:

Credo che il marketing dei newsbrand italiani sia ancora ad uno stadio troppo primitivo, arretrato, per ipotizzare che venga implementata da parte loro una strategia basata su influencers. A titolo esemplificativo basti pensare che sino a meno di 15 giorni fa un gruppo di rilevanza internazionale quale Conde Nast non aveva neppure un direttore marketing. Il marketing editoriale, finita l’era dei collaterali in cui si era trasformato in un ufficio acquisti di paccotiglia da Hong King da allegare a giornali e riviste, ora si concentra quasi esclusivamente su gli aspetti direttamente riconducibili alla monetizzazione e dunque alla raccolta di adv.

In realtà, ovviamente, i newsbrand hanno già al loro interno fior fiore di influencer: quei loro giornalisti che spesso hanno un grande seguito di pubblico sui social. Ahimè sono risorse non sfruttate per assenza non solo di una strategia organica ma anche, più banalmente, di una policy interna su uso dei social.

Insomma, gli influencer potrebbero essere una risorsa ma, come in molti altri casi, il loro valore ed impatto non viene sfruttato.

CONCLUSIONI

Non pronto significa in molti casi solo posticipato. La posizione, l’authority ed il trust di molti influencer sta di gran lunga superando quella di giornalisti e testate, portandoli lentamente a prenderne il posto come riferimento primario per gli utenti. Una ricerca del 2014 dell’istituto Gallup denunciava che la fiducia nei media non supera, negli Stati Uniti, il 22%.

Una realtà preoccupante che molto probabilmente potrebbe anche peggiorare. Passare dal filtro di opnion leader selezionati potrebbe essere una delle vie per rimediare a tutti questo, una via per ritrovare l’autorità persa nel tempo. Restano forti dubbi sul come, sul come fare tutto questo senza svilire le figure di influencer coinvolte o dando un messaggio che può apparire troppo “pilotato”. La credibilità, non scordiamolo mai, passa soprattutto dall’autonomia.

Sono ancora vive le critiche su questo tema fatte a proposito del brand journalism, critiche che sottolineano paure evidenti riguardo possibili deformazioni ed usi impropri dei media. La priorità rischia infatti di passare dall’informazione stessa alle necessità di brand, influencer e, perché no, ads.  Una previsione non certo lusinghiera, ma che nasconde più di un rischio.